Conto sulle dita delle mani le ore che mi separano dal giorno.
È un’operazione facile, ma devo essere sicura che si tratti proprio di quattro ore alla sveglia e circa tre alla luce dell’alba. Mi servono le dita per accertarmene. Sollevo un dito per volta e conto: uno, due, tre, quattro. So che è un calcolo inutile da fare, perché ho guardato il cellulare pochi istanti fa, ma in questo momento mi sembra urgente sapere da quanto tempo sono sveglia, intenta a fissare quel barlume che trapela dal buco della tapparella. Non riesco a sentire il suono del mio respiro, nemmeno sforzandomi: è ancora troppo sottile per avere un peso sonoro specifico. Maturo il pensiero di alzarmi per osservare l’alba dalla finestra dell’altra stanza. Mi chiedo se avrò effettivamente la stessa energia di questo istante per farlo, quando sarà il momento. Non faccio in tempo. Mi addormento. Non è un sonno vero: è più una via di mezzo, come se ci fosse un’altra me a guardarmi, sostando sulla porta del sogno. Perché non si può dire che io stia sognando. Quando sogniamo, di solito, ci agganciamo a residui di attimi vissuti durante la giornata: ma io non ho vissuto nulla con te, lo scorso giorno. È la mia mente a scegliere quali immagini produrre, in questi casi; va a raccogliere tutto quello che può dalla neocorteccia, forma anche dei suoni che potrebbero essere plausibili. Tipo la tua voce - di cui mi sforzo di ricordare la sonorità, le diverse inclinazioni, lo spazio di silenzio che lasciavi tra una parola e l’altra. Mi protegge, la mia mente, dall’ultima volta che ci siamo visti. Mi lascia creare spazi di vita, ipotesi di realtà, mondi non più futuribili insieme. Siamo in macchina, lungo un’autostrada qualunque, c’è il sole alto ma è l’ora del tramonto, ed è di un’arancione così forte che si specchia nel mare, come fossero due. La puzza della tua sigaretta mista all’odore di sedili nuovi mi dà la nausea. Ti chiedo se puoi buttare il fumo fuori, ma tu fai come facevi sempre: abbassi di un centimetro il finestrino, sputi fuori la prima delle quattro boccate che farai e poi te ne dimentichi. Guardo davanti a me per non sentire il mal d’auto e d’improvviso realizzo che sono molto piccola. Me ne accorgo perché riesco a vedere le mie scarpe sporgere appena dal sedile. Forse ti domando quanto manca all’arrivo ma non faccio in tempo a sapere se mi hai risposto, perché adesso sto guidando io, e sono di nuovo grande. Tu invece sei vecchio. Molto più vecchio dell’ultima volta che ci siamo visti. Ora stiamo andando verso un mare che conosciamo bene, sembra che abbiamo qualcosa da fare perché sto guidando con estrema attenzione e al contempo di fretta, come se non avessimo molto tempo da perdere. Io non so come saresti stato più vecchio di come t’ho visto l’ultima volta. Però in questa scena hai i capelli bianchi, radi. La barba bianca, gli occhiali gialli. Ti rosicchi l’unghia dell’anulare. Non parli. Ti chiedo se hai tutto con te, le medicine, le sigarette. Il giornale. Mi guardi e basta. Non capisco se hai afferrato ciò che ho detto. D’un tratto irrompe la veglia. Non riuscirò ad addormentarmi di nuovo, mi dico. Cerco di riacchiappare quel frammento di te che ho inventato. Provo a chiudere gli occhi per forzarne il ritorno. Non funziona. Mi torna in mente il momento in cui ti ho visto per l’ultima volta. Cerco di cacciarlo via, voglio dimenticarmi di quella stanza, di quella penombra, del colore della tua pelle, del vestito che ti hanno messo, dell’odore di disinfettante, della gente che mi ha parlato, di qualcuno che voleva qualcosa da me proprio in quel momento. A cascata immagino momenti felici in cui non ci sarai; domande a cui, comunque, avresti risposto di chiedere a mamma; addirittura riesco a immaginare cos’avresti pensato dell’ultimo disco dei Cure: mi avresti risposto bello, ti ricordi quando li abbiamo visti a Taormina, com’eri felice - e io ti avrei risposto di sì, che ero felice. Avremmo sicuramente parlato delle linee editoriali dei giornali che seguo, avresti promosso o bocciato qualcuno nello specifico - perché sì, le risposte sono state sempre solo due: è un coglione oppure scrive come un dio. Ti direi che tante delle cose che ossessionavano te, oggi ossessionano me. Che di scrivere un libro, chissà, se ne parla. Ti direi che quando ho visto Perfect Days di Wenders ti ho pensato, perché certi gesti metodici del protagonista erano proprio tuoi. Ti racconterei di come va la mia vita, ne parleremmo solo dopo il caffè che mi obbligheresti a prendere al bar, ti chiederei se anche tu ti sei sentito così, a un certo punto. Se quando ti vedevo triste, depresso, stanco, hai mai pensato di essere stato anche felice. Immagino come saresti al mio matrimonio: ti immagino commosso ma anche euforico, un po’ come quando alla mia laurea ti sei alzato ad applaudire e sei andato a stringere le mani alla commissione, nemmeno mi avessero insignita di chissà quale onorificenza speciale. Ti immagino ridere, come quando vedevi uno di quei filmetti demenziali in televisione e ti dicevamo che sembravi Paperino. Ti immagino sul gommone in mezzo al mare, sereno, abbronzatissimo, avvolto da una patina salina sui peli del petto.
Ti immagino vecchio, però anche giovane, perché alla fine è così che eri. Alla fine è così che sono anch’io.
Sono stanchissima, ma è già mattina. Suona la sveglia.
È il giorno nuovo che comincia.
Il giorno che ho difeso a spada tratta dalla morte.
Adesso ti devo dire per forza buonanotte, papà, buonanotte.
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Non c'è mai una vera fine nel cuore di chi immagina
Sei riuscita ad accorciare le distanze. Tutto mi è apparso così reale, vero... commovente! Grazie 🙏❤