Negli ultimi due giorni ho sentito il bisogno di litigare, di incazzarmi con qualcuno, dirgliene quattro e imporre le mie ragioni - e per fortuna ne ho avuto modo, perché quando il tema da trattare è il lavoro non c’è ritrosia o stanchezza che tenga: parto in quarta.
Non è infatti un mistero che io sia in aperta lotta contro lo stantio mercato italiano. Al di là del fatto che mi trovo, mio malgrado, disoccupata da ormai un anno, questo mio dissenso nasce da ben prima di questo specifico dettaglio (del tutto irrilevante, in questo caso - davvero).
Ne scrivo oggi, cercando di lasciar fuori la mia personale esperienza professionale, dopo aver polemizzato online sull’ennesimo annuncio sprovvisto di RAL (ma anche dopo la lettura di questa bella newsletter e l’ascolto della prima puntata di Wilson di Francesco Costa).
Voi direte: non è un po’ pochino per infuriarsi?
Mi spiace.
Questo dovevate chiederlo alla Caterina di ieri.
Che cosa sta succedendo nel mondo del lavoro, in Italia
Risposta breve: niente.
Risposta meno breve: niente di eclatante da almeno trent’anni.
Gli stipendi sono fermi* nonostante l’inflazione alle stelle, le big corporate faticano ad assumere (e lo faranno sempre di più, visto che non si fanno più figli), le PMI non vogliono farlo e non incentivano né il ricambio generazionale onesto né la formazione dei propri dipendenti (col risultato che conosciamo: burocrazie inutili e rimpalli di responsabilità da parte di impiegati che a stento sanno accendere un computer), le start-up/scale-up più innovative ricercano solo una persona con skill precisissime ogni sei/otto mesi se va bene, e sull’intero suolo italiano.
*dipende dove lavori, però. Se fossi stata assunta trent’anni fa in uno dei broadcaster in cui ho lavorato, non so se mi lamenterei della mia parcella mensile da 2500€, seppur ferma ai primi 2000. O forse sì, chi lo sa
Tutta questa massa di informazioni certamente sommarie che vi ho elencato portano alla questione principale: lavoriamo poco oppure lavoriamo troppo (a causa di chi lavora troppo poco o male) e, nonostante questo, la competizione è alle stelle. Oggi un neolaureato, un trentacinquenne mega skillato e una persona più in là con l’età che ha perso il lavoro, qui in Italia si scannano per lo stesso tozzo di pane marcio.
La cosa più grave però, per me, non è solo questa: è soprattutto il fatto che non ci sia alcun segnale di cambiamento o miglioramento all’orizzonte. Anche le aziende gestite da giovani, alla fine della fiera, continuano a replicare sempre lo stesso irrispettoso modello: informazioni sommarie nei job posting, scarse o zero specifiche in merito a RAL e tipologie contrattuali previste, nebulosissimi elenchi puntati che non chiariscono il tipo di ruolo richiesto (quando non è addirittura un mix di varie mansioni), welfare e benefit che, onestamente, a volte sarebbe meglio non fossero citate (dispense di acqua gratis in ufficio: OH YEAH! FIGO! POSSO BERE ACQUA INFINITA!), inesistente orientamento al benessere del candidato in fase di application.
E non ho citato i freelance con P.IVA: loro vivono un mondo di disagio a parte.
Se vuoi, non è detto che puoi
La mia generazione (quella che oggi ha tra i 27 e i 35 anni) ha vissuto una serie di eventi colossali e decisamente depressivi per l’economia italiana: i vari scandali di Tangentopoli, la crisi finanziaria del 2008, il Decreto Dignità (DL 87/2018), la pandemia del 2020, solo per dirne alcune. La portata di queste storie avrebbe dovuto mettere in allarme le teste più intelligenti del nostro paese.
E invece no.
Sono quasi riuscite a far peggio - o a non far nulla, semplicemente.
Il motivo? Gli under 40 sono esclusi dal discorso politico. Non c’è una, dicasi una, proposta o disegno di legge che in qualche modo li riguardi, ci riguardi. La tutela è sempre, sempre, rivolta di più alle fasce d’età più anziane e ai pensionati. Provatemi a dire che non è vero.1
Dalla seconda guerra mondiale, non era mai successo che una generazione non potesse godere di un benessere superiore a quello della precedente: era chiaro che i boomer (1946-1964), figli della generazione silenziosa (1928-1945), avrebbero potuto fare molto di più dei loro genitori - e il loro “nome” lo spiega bene, infatti - visto il periodo d’oro in cui sono diventati adulti.
Oggi no. Ti viene chiesto di impegnarti sempre di più, ma non è assolutamente detto che grazie al tuo impegno tu ce la faccia.
E se non ce la fai, è per giunta colpa tua.
Quello che ormai è diventato senso comune, dunque, ci convince che con l'impegno otterremo tutto quello che desideriamo. Una promessa del tutto disattesa, ma a cui molte persone continuano a credere, e che oltre a essere falsa nasconde un giudizio morale pesante nei confronti delle classi cosiddette socialmente inferiori. […] La vera anomalia è la ricchezza diffusa, il fatto che ci siano molte più persone ricche, rispetto a un tempo, e che diventano sempre più ricche. Il cortocircuito avviene quando, anziché considerare anomala questa ricchezza accumulata con la società industriale e digitale, consideriamo un'anomalia tutte quelle persone che non la raggiungono, e diamo loro la colpa.2
Indubbiamente, parte del problema di come guardiamo al lavoro e alla vita deriva anche da ciò che il cinema e le serie tv ci raccontano. Personaggi che in qualche modo ce la fanno, riescono nei loro progetti, hanno tempo per far tutto, non falliscono mai e si divertono pure.
The Bear è un po’ borderline: da un lato viene raccontato il sogno, che è più forte di tutti gli impedimenti strutturali; dall’altro il disvelamento di quanta rogna uno debba ingoiare per farcela veramente. Poi vabé, parliamo di americani: sono programmati per farti vedere quanto ce l’hanno lungo, in qualunque occasione.
The dreams in which I’m dying (are the best I’ve ever had?)
Il mio primo rapporto di lavoro vero l’ho sottoscritto dieci anni fa: cosa ho imparato da allora?
Nonostante siamo riusciti, quasi tutti, a portare il nostro lavoro a casa e ad ottimizzarlo, e nonostante si stia ventilando l’ipotesi di un lavoro spalmato su 4 giorni lavorativi, è più forte la controtendenza al rientro in ufficio, 5 giorni su 53
Nonostante abbiamo assistito al fenomeno delle Grandi Dimissioni e del Quiet Firing, nessuno ha ancora compreso - o vuole comprendere - la gravità della situazione economica nei luoghi di lavoro, e si continua a perpetrare un dislivello sproporzionato, e ingiustificato, di ricchezze tra i lavoratori
Viviamo nell’epoca che Spinosa definiva delle passioni tristi: “[…] la crisi della cultura moderna occidentale fondata sulla promessa del futuro come redenzione laica. Si continua a educarli (i giovani, ndr.) come se questa crisi non esistesse, ma la fede nel progresso è stata ormai sostituita dal futuro cupo, dalla brutalità che identifica la libertà con il dominio di sé, del proprio ambiente, degli altri.”4
Visto che tutti potremo essere famosi per un giorno (cit.), è possibile sbarcare egregiamente il lunario cavalcando in modo intelligente l’algoritmo di certi social: se certuni, senza precise capacità, si arricchiscono facilmente, altrettanto facilmente noi altri continuiamo a impoverirci (anche mentalmente), per restare al passo con una vita che costa sempre di più e ci premia sempre di meno
Su questa scia, la continua romanticizzazione delle vite professionali altrui - su Instagram, TikTok, e persino LinkedIn - contribuisce a idealizzare stili di vita spesso fittizi e irraggiungibili, alimentando frustrazioni e, nei casi peggiori, sfociando in esternazioni di violenza francamente preoccupanti
Guai a rinunciare al lavoro, se lo hai. Se ti fa schifo, non ti rispecchia, se il tuo capo non ti considera, nega i tuoi diritti, non paga gli straordinari, fa micro-management, se i tuoi colleghi ti fanno mobbing o ti molestano, se il burnout è dietro l’angolo, tieniti comunque quello che hai che poi, quando non lo hai più, piangi
In tutti i casi ricordati che il lavoro non ti ama, promette ma non mantiene, e a nessuno gliene frega veramente qualcosa di te (da questo si possono anche trarre conclusioni positive, però)
La lezione più importante: se sei una femmina, tanti auguri.
Ho il burnout, detesto i miei compiti, sono sempre stanco, sono scarso, dovevo fare un lavoro un po' meno ambizioso, gli altri ce la fanno, perché solo io no? Guadagno mezza lira, se fossi davvero bravo prenderei uno stipendio migliore. La colpa è mia che non ho fatto ingegneria. La colpa è mia che ho fatto scienze della comunicazione. La notte non dormo pensando alle mail di lavoro. Il mio capo mi tratta come un coglione, sono un coglione, se fossi meno un coglione non mi tratterebbe come un coglione. Sono tutti più bravi di me, io mi barcameno, non ci capisco un cazzo, sono sempre l'ultimo ad andare via. Non ho uno scatto di carriera da dieci anni, lo credo, sono il meno bravo. 5
Come possiamo fare meglio?
Torniamo al motivo della mia ira funesta.
Una piccola agenzia di comunicazione ha pubblicato un annuncio di lavoro in stage scritto in modo super wow e giovanile (passatemi questi termini così vetusti). Sorpresa del fatto che una realtà microscopica possa sobbarcarsi l’assunzione, seppur in stage, di una persona, proseguo con la lettura del job posting nella speranza di trovare qualche informazione di carattere più pratico, diciamo.
Ed ecco che arriva: proposta di contratto da definirsi dopo 3 colloqui e l’invio di una prova.
RAL? CCNL? Possibilità di proroga del rapporto del lavoro?
Non pervenuti.
Quindi, ricapitolando: ammesso che io sia un neolaureato alla ricerca di una prima mansione con cui misurarmi, devo prima pregare ogni santo a cui credo in paradiso che il mio CV venga considerato; poi devo sperare di essere chiamato e di impressionare al meglio la persona che ho davanti; devo cimentarmi con un lavoro pratico, gratuitamente, con una dead-line e con la pressione addosso che, come me, chissà quante altre persone staranno concorrendo per lo stesso posto, magari facendo meglio di me; nel remoto caso in cui venissi selezionato, solo in quella fase potrei discutere di quanto verrei pagato, quali sono i miei orari di lavoro e se c’è la possibilità di restare in quell’azienda anche dopo lo stage; essere infine scelto, oppure aver sopportato almeno due settimane di colloqui, uguali a tanti altri.
Mi auto-cito da qualche paragrafo più su: se anche le aziende gestite da giovani continuano a replicare sempre lo stesso irrispettoso modello, come possiamo invertire questa tendenza autodistruttiva se noi per primi non facciamo altro che alimentarla?
Com’è possibile che i giovani stiano diventando complici dei loro stessi carnefici?
So che ultimamente sto concludendo gli episodi con delle domande ma stavolta chiedo proprio per me - e probabilmente per tutte le persone che hanno sempre sognato di lavorare in ambiti creativi, o semplicemente stimolanti e tutelanti, e che oggi hanno perso tutte le energie: come facciamo?
D’altronde la quantità di anziani in questo paese supera di gran lunga quella delle persone che potrebbero muovere l’economia.
Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo di Andrea Colamedici e Maura Gancitano, HarperCollins, Milano, 2023. Pagine 125-126.
Ho letto una battuta online che mi ha fatta molto riflettere. Ma chi è che brama veramente il rientro in ufficio 5 giorni su 5? Non solo i boss assetati di potere e legati a retoriche stantie, ma anche chi, evidentemente, a casa non ci vuole proprio stare.
Lo statuto delle lavoratrici. Come ti senti, a cosa hai diritto, dove possiamo cambiare di Irene Soave, Bompiani Overlook, Milano, 2024. Pagina 191.