Si stava meglio quando si stava peggio?
Tra bias cognitivi, scarsa empatia e analfabetismo funzionale, oggi non ce la passiamo proprio benissimo
C’è un fenomeno affascinante che accade quotidianamente sotto i nostri occhi, soprattutto online, che la psicologia ha definito bias di conferma (confirmation bias). In pratica filtriamo le notizie e i contenuti, e scegliamo di credere solo a ciò che avalla le teorie che ci convincono. La verità, che ha molti più gradi di separazione rispetto a quello che noi conosciamo o crediamo di sapere, non c’interessa fino in fondo.

Non lo facciamo sempre intenzionalmente. Spesso è solo “colpa dell’algoritmo”, per dirla in modo semplice. A forza di fruire contenuti simili tra loro (pure quelli volutamente sensazionalistici, antiscientifici, zeppi di fake news), ci incaselliamo in bolle social che rinforzano le nostre credenze. Quando queste scoppiano, però, per alcuni è un vero e proprio shock: è talmente impossibile sopportare altri punti di vista, che è più facile attaccare ferocemente il prossimo.
Oltre al confirmation bias, esiste anche l’Overconfidence bias, la tendenza a essere eccessivamente sicuri delle proprie convinzioni, anche quando non si hanno dati o esperienze dirette.
Online, l’esempio più lampante per me è rappresentato dai commenti sotto agli articoli di giornale, specialmente quelli coi titoloni clickbait il cui scopo è proprio quello di alimentare il traffico sulle proprie pagine (eviterò di rispolverare cosa è successo, per esempio, durante la pandemia coi no-vax). Offline, ho riscontrato questa caratteristica soprattutto tra le persone che hanno superato i quarantacinque anni: credo infatti sia una questione, oltre che caratteriale, proprio generazionale. Anche corredando le proprie tesi con evidenze scientifiche o storiche, se Pippo, pensionato di 65 anni, è convinto che quando c’era lui si stava meglio (anche se Pippo, quando c’era lui, non era nemmeno nato), non c’è niente da fare.
Chiaramente è la mia esperienza: non mi sono ancora scontrata dal vivo, con persone della mia età, che criticassero aspramente scelte diverse dalle proprie. O che si dichiarassero “odiatori dell’ideologia woke”. Mi verrebbe da dire per fortuna perché ho paura che, dovesse succedere, la mia capacità oratoria potrebbe smettere di funzionare correttamente.

Qual è il punto: sebbene (nostro malgrado?) abbiamo la possibilità di scoprire cosa succede nel mondo praticamente in presa diretta; sebbene grazie a internet abbiamo accesso a porzioni di realtà che non avremmo altrimenti mai conosciuto; sebbene informarsi non sia mai stato tanto facile; sebbene oggi si parli molto di più di tantissimi argomenti che, per non averli mai sentiti nominare, bisogna proprio averli deliberatamente ignorati — c’è ancora una grossa fetta di popolazione che non riesce a sfruttare positivamente questo enorme vantaggio rispetto al passato. Non riesce a riconoscere, contemplare, comprendere l’esistenza di altre culture, tendenze, opinioni, questioni sociali. Se questa stessa fetta prima esprimeva le proprie convinzioni al bar, tra amici e parenti (o alla peggio urlando contro il televisore), adesso ha l’opportunità più unica che rara di dire ciò che vuole come vuole, e di essere letto o ascoltato da migliaia di persone sparse per il globo. Questo, ovviamente, vale sia per i prosumer1 che per i semplici fruitori di contenuti.
Sui social, nelle nostre bolle, possiamo quindi accertare due sole cose: quanto siamo bravi noi e quanto non lo siano gli altri. Solo che, a lungo andare, questo potrebbe diventare seriamente un dettaglio molto rilevante. Direi, anzi, pericoloso.
Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri. 2
Nonostante siano passati più di trent’anni dall’avvento di internet e quasi venti dalla comparsa dei primi social network, c’è chi ancora fa fatica a capire che l’io virtuale è lo stesso dell’io “analogico”, anche se nascosto dietro a un username fittizio. Ci si comporta ancora come se le due entità fossero effettivamente separate grazie (duh!) a uno schermo, come se i comportamenti promossi online fossero meno impattanti di quelli che mettiamo in atto “dal vivo”.
Si sta inoltre ipernormalizzando l’esistenza degli hater, dei “leoni da tastiera”, dei troll e di tutte le nuove personalità dell’internet dell’Olocene: tutto questo mi sembra che non allarmi chi di dovere in modo particolarmente “attivo”. Anzi.
D’altronde, stiamo ancora discutendo se inserire l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole…
Per questo dirò una cosa forte: forse abbiamo già superato il periodo in cui potevamo salvarci? Forse adesso non ci resta che provare a mettere le toppe, dove possibile? O forse sono semplicemente troppo drammatica io (è un tratto caratteristico dei millennial, mi pare di aver sentito).
Qualcuno potrà obiettare: gli ignoranti, i creduloni, i fuffa guru e i truffatori c’erano anche prima di internet. Verissimo.
Solo che, prima, ignorarli era un po’ più facile: erano confinati in precisi contenitori. Adesso non è più così.
Un esempio cretino che mi viene in mente: vi sarà sicuramente capitato di guardare video ADV di vari brand. Ecco, fate una scorsa tra i commenti. Troverete cose tipo:
Ma questa chi è? (dopo qualche risposta, probabilmente la stessa persona inserirà un insulto indirizzato all’influencer di turno)
Ma è bruttissimo questo oggetto (come se qualcuno avesse chiesto l’opinione di Pippo, pensionato di 65 anni)
Prezzo (rigorosamente senza punto interrogativo)
Io lo compro al supermercato che costa meno (ok…?)
Un esempio meno cretino riguarda tutti quei commenti o video tipo “vi dico la mia” (che il più delle volte perpetrano notizie sbagliate o fuorvianti) su temi di attualità particolarmente caldi. Ad esempio sui femminicidi. Giuro, io non ho mai letto tanta cattiveria gratuita contro le donne, e contro gli uomini, come in questi ultimi anni.
E allora vuoi vedere che alla fine si stava meglio quando si stava peggio? Quando l’unico modo che avevamo per dissentire con l’altro era guardandolo in faccia, preoccupandoci di tutte le conseguenze del caso? Naturalmente, per me la risposta è no.
Però riuscite a immaginare se conversassimo nel quotidiano come alcuni fanno tra i commenti di TikTok?
Se al supermercato, alla corsia del latte, qualcuno vi minacciasse di morte perché scegliete il latte d’avena (Non puoi kiamarlo latte!1!!!11)?
O se qualcuno entrasse in un’aula di tribunale per sentenziare sulle decisioni del giudice, perché dai, si vede dalla faccia che quello è colpevole?
O se un folto gruppo di persone, per strada, manifestasse a gran voce al grido di W FILIPPO TURETTA?
Espressione coniata da Alvin Toffler nel libro The third wave (1980): è una crasi dei termini producer e consumer che indica un consumatore che è a sua volta produttore.
Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, 1935.
A me non sembra noiosa