Chi mi legge già da un po’, sa che le pratiche dello yoga e del pilates fanno parte della mia routine da diverso tempo; sempre chi mi legge già da un po’, sa che in questa newsletter abbiamo parlato più volte dello stare nelle cose: nei sentimenti positivi così come in quelli che connotiamo come negativi, che generalmente tendiamo a rifuggire.
Chi mi legge da un po’, insomma, spero avrà già compreso che questo parallelismo che vi ho appena presentato, apparentemente forzato, non lo è affatto.
Lo yoga ci aiuta sì a muovere il nostro corpo, ma anche a prestare attenzione al nostro respiro, a notare la natura dei nostri pensieri: soprattutto, questa disciplina ci chiede costanza per imparare a mantenere le āsana (le posizioni, posture) anche quando ci sembra di perdere l’equilibrio - o peggio, quando qualche muscolo sembra non voler collaborare, facendoci faticare più del previsto.
Restare nell’āsana significa insomma imparare a fidarsi del proprio corpo: vuol dire accogliere un po’ di dolore, sapendo che lo sforzo di oggi contribuirà a consolidare il nostro baricentro di domani.
Questo, seppur non sembri, vale anche per śavāsana.
Śavāsana o shavasana (शवासन), ovvero posizione del cadavere, è una delle ultime posture che si eseguono alla fine di una pratica. La massima espressione della resa, il modo più eccellente di restare in contatto con noi stessi e soprattutto con gli sforzi appena compiuti: il momento in cui il corpo si abbandona completamente al terreno.
Non si deve far nulla se non star fermi. Immobili.
Proprio come fossimo morti.
Shavasana non viene praticato per riposarsi dalla stanchezza, seppure rilassare i muscoli e le articolazioni porti grande giovamento, è invece uno stato mentale con il cuore completamente aperto che invita la grazia incondizionata nella nostra vita. Come Krishna spiega ad Arjuna nella Bhagavad Gita, il corpo fisico è il vestito della nostra anima e deve essere cambiato quando si è logorato. La tradizione yogica suggerisce che è saggio tenere a mente questa caducità, senza fingere che la morte non esista, perché il giusto atteggiamento può darci un senso di scopo che può ispirarci a fare buon uso del tempo che abbiamo sulla terra. E così, mentre Shiva ci ha insegnato la forza nel praticare le asana, Shakti la sua amata, espressione della più pura energia femminile, ci insegna ad arrenderci al momento presente.1
Perché tutto questo mega pippone yogico?
Perché proprio grazie a śavāsana e ad altre letture del periodo (tra tutte: L’anno del pensiero magico di Joan Didion, che consiglio), ultimamente sto ragionando molto attorno al concetto di morte: di quanto come comunità siamo portati a temerla profondamente, a evitarla, quasi a volerla sconfiggere, dimenticandoci quanto invece sia parte necessaria e inevitabile delle nostre esistenze. Quanto, incredibilmente, sia necessario accoglierla, per vivere meglio.2
Ogni giorno facciamo i conti con la limitatezza della vita: eppure l’idea di essere fallibili, di non essere eterni e dunque di essere fondamentalmente uguali a tutti gli altri (non migliori, non peggiori) ci devasta. Per carità - non credo non si debba aver paura di morire, o che si debba diventare per forza tanatofili: la morte spaventa, atterrisce, anche perché l’associamo a sentimenti di paura, orrore, solitudine, dolore fisico.
Ed è normale.
Il punto è che la nostra società non ci prepara al suo arrivo. Non ci insegna a comprenderla: figuriamoci ad accettarla.
Non sapendo quando l'alba verrà,
apro tutte le porte,
abbia essa piume, come un uccello,
o frangenti, come una riva
Emily Dickinson, 1884
Come già scritto nell’incipit di questo numero e in episodi passati, la collettività ci vuole convincere che per star bene vadano scacciate le ombre del cuore. Chi fa discorsi “pesanti” (come i miei LOL), chi fa fatica, chi è mortifero, non può far parte del circolo dei vincenti. Chi non performa in modi eclatanti, soprattutto in questo sistema capitalistico, non merita rispetto. Anzi, si merita quasi di essere etichettato come sofferente, proprio per essere evitato (mi viene in mente quando ci si veste di nero, per dichiarare di essere a lutto).
Il vincente è tale perché ha eliminato la negatività, le sfighe. Questa persona, dunque, non può, non deve e non vuole assolutamente restare nel discorso attorno alla morte.
Spero non mi abbiate persa, mi rendo conto di star tessendo tanti fili: portano allo stesso discorso, comunque, non temete
Come paese di stampo cattolico, ci viene insegnato fin da bambini che l’anima dei nostri defunti, una volta lasciato il corpo, arriva in paradiso: un modo per “addolcire” la gravosità della loro assenza. Sembra però che a nessuno basti veramente come spiegazione (men che meno agli atei e agli agnostici): e allora come si fa a farsi andar bene che, da un momento all’altro, noi o i nostri cari potremmo smetter di far parte di questa fantastica storia che è la vita3?
Come possiamo imparare a vivere con l’idea della morte, per quanto questa frase suoni come un ossimoro?
Come possiamo restituirle il giusto spazio nel dibattito quotidiano, essendo essa (paradossalmente!) l’unica cosa di cui potremo mai essere certi, nella vita?4
Torniamo alla persona “vincente” cui accennavo poco sopra: bazzicando su LinkedIn (mi confermate peggior social network esistente?) mi sono imbattuta in un post di un tizio5 che mi ha lasciata davvero, davvero perplessa.
Cito testualmente:
Mio padre è mancato venti giorni fa. […] Per salutarlo, ho scritto un pezzo che è tante cose insieme […] (su) l'ultimo funnel. L'ultimo brand da scegliere. E tutto quello che ci è successo nell'ultimo "customer journey". […] Il link è nel primo commento/English Al translation at the end of the Italian text.
Anche questo me l’ero già chiesta qualche numero fa (sia in relazione al tempo che al lavoro): quand’è che pure la morte è diventata performance? Siamo davvero riusciti a svuotarla di significato, a eliminarne i connotati più intimi, pur di farci un contenuto acchiappalike?
E allora, di nuovo e meglio: come possiamo, in quest’era di grandi narcisismi, imparare a parlare della morte? Come possiamo assicurarle il rispetto che merita? Riusciremo a svestirci di tanto egocentrismo e presunta infallibilità?
Impareremo mai a celebrare la vita anche attraverso la morte, accettando con serenità che, semplicemente, a un certo punto finiremo?
Un video fondamentale che vi consiglio di guardare, se v’interessa l’argomento.
Forse la risposta sta già nelle trecento domande che mi/vi ho posto.
Di sicuro, io non ne ho una esaustiva e completa.
In tutti i casi, abitando io una vita e avendo già sperimentato la morte, ho scelto che postura tenere nei confronti di entrambe.
È camatkarāsana: la posizione della cosa selvaggia.
In sanscrito camatka (चमत्का) si traduce come ‘stupito’ o ‘sorpreso’.
In senso più ampio, si può tradurre anche come miracolo.
Giulia Sama su Macrolibrarsi. Non amo particolarmente questa rivista ma questo articolo mi serve per il ragionamento che vorrei portare avanti con voi.
Mi riferirò in questa sede alla morte che sopraggiunge non per cause dolose, come omicidi o incidenti improvvisi.
Come direbbe Antonello Venditti quando non è impegnato a romperci i coglioni con la notte prima degli esami
Sapevate che esistono alcune (troppo poche) strutture adatte allo scopo? Si tratta dei “Death Café”.
Su LinkedIn basta che qualcuno dei tuoi collegamenti apprezzi un contenuto per far sì che appaia sul tuo feed, anche se appartiene a una persona che non conosci né segui
Bellissimo tutto e ne avevo bisogno. Non sono in grado al momento di aggiungere cose intelligenti sull'argomento, e per questo mi scuso, ma ti dico anche grazie per aver condiviso queste riflessioni. Il libro della Didion, già lo sai, mi rincorre e lo recupero al più presto. E la nota su Venditti mi ha fatto molto ridere.
Ah, una cosa la posso aggiungere: avendo vissuto anche io qualche lutto e di conseguenza qualche funerale cattolico, li trovo di una tristezza inaudita. Ho avuto il paragone anche soltanto con un funerale protestante, dove il pastore o LA pastoressa (?) visto che possono essere anche donne, che deve officiarlo viene di persona a casa dei cari del defunto, e si fa raccontare chi fosse questa persona cui bisogna dire addio, così da scrivere un discorso che parli effettivamente di quella persona. La cerimonia funebre protestante lascia poi molto spazio per renderla una cosa personale, da qualche gesto simbolico che si vuole fare, alla scelta della musica. Il risultato è nel complesso molto meno freddo, distaccato e ritualistico ed ha molto di più il sapore di una celebrazione della vita di chi non c'è più. Siccome i funerali servono più a chi resta, secondo me viverli in una chiave del genere è, seppur non meno doloroso, molto più rincuorante.
Interessante il binario parallelo con la disciplina (anche l' uso di questa parola -disciplina- ha un rimando) dello yoga, che come si sa, vuol dire "collegamento". Tra ogni cosa c' è collegamento: nel ciclo vita-morte Clarissa Pinkola Estes aggiunge ancora vita. Vita/morte/vita. Uno stato naturale per il mondo animale, selvaggio, come infatti tu qui scegli di stare sull'argomento: una posizione (asana) selvaggia. A istinto, e solo restando in questo, credo che sia la posizione più autentica nel nostro "passaggio" qui. Non solo un inizio, non solo una fine (come affermava Terzani) ma un transito in cui inizio e fine sono strettamente ma liberamente interconnessi. In alcune culture antiche si usa ancora aprire subito le finestre nell' attimo in cui la persona lascia il corpo: per permettere all' anima di volare via libera e... chissà.